L’eco di quanto accaduto al Circo Massimo è ancora tangibile, nitido tra i fan di Liberato. Una commistione di suoni, ricordi e contrappunti emotivi che si miscelano in una primavera sbocciata come le rose più belle, quelle ormai caratteristiche di maggio, di Napoli e dell’anonima maschera presente su palchi e dietro canzoni.
Il presente è “solo” un tramite fra quello che è stato e quel che sarà; così l’evento nella Capitale traccia prospettive articolate a dopo l’estate spingendosi fino al 2026, quando arriverà il concerto allo Stadio Maradona, location da conquistare per ribadire il rapporto viscerale con la propria città attraverso le location simbolo, dopo il Lungomare, Piazza del Plebiscito e l’incursione in quel di Procida. A completare il trittico del tempo c’è, ovviamente, il passato, perché un 2025 così imponente non poteva prescindere da nuove canzoni, arrivate nelle ore dove tutta l’Italia (tutta l’Italia, tutta l’Italia, ehi) era impegnata a fare casino.
Cosa stavate facendo a Capodanno?
Ammetto che la mia non sarà stata la più memorabile delle serate, o l’ingresso più pirotecnico nel nuovo anno, però sono riuscito a beccare abbastanza presto LIBERATO III, il nuovo disco (licenziato, rigorosamente, in forma indipendente) che continua questa tradizione di numeri romani alla Led Zeppelin.
Nove tracce distanti da brindisi, buoni auspici e trenini, con una rosa e un cielo stellato in copertina a suggerire altri luoghi, altri viaggi. Si parte cliccando play, ma è subito un invito al ritorno sulle note di “Voglia ‘e turnà” di Teresa De Sio, una delizia decisamente sottovalutata nel vasto novero della musica d’autore napoletana. I toni sono alti, ma il messaggio alla base è di quelli intrisi di malinconia, con un testo che parla di lontananza e si rivolge agli expat, ma in generale a tutti quelli che devono macinare chilometri (e superare gli ostacoli, strizzando l’occhio a una certa attitudine ultras che era più concreta nel primo Liberato) lontano dai propri posti.

Tra saliscendi ritmici e suoni acidi
Si parla di cose a tre, manifestazioni d’affetto di una sincerità sorprendente, e c’è anche spazio per duettare con Maria Nazionale, perché no? Poi arriva un colpo d’alta scuola, perché diventa difficile trovare altre definizioni quando una canzone (“‘A Fotografia“) droppa fortissimo campionando una litania tratta dal finale del primo atto di Napoli Milionaria, opera di Eduardo de Filippo.
Significa che determinate nozioni sono parte del tuo retaggio culturale. Di quello che hai studiato e che ti ha ispirato, e non semplice fan service o creazione di un immaginario da condividere. Questo tipo di “imbeccate”, scevre da troppa profondità, vengono comunque offerte nei momenti opportuni; come nel caso di “VIENNARÌ” che è stata diffusa il recente 9 maggio, a fare da traino per il concerto del 31 a Roma.
In chiusura del disco, arriva un episodio significativo di questa storia discografica intrisa di mistero e anonimato; “‘O DIARIO” di Liberato si apre, e viene condivisa una pagina con chi ascolta. Il racconto in forma di spoken word spiega cos’ha passato nel tempo intercorso (circa) fra il secondo e il terzo album. Dove, tendenzialmente, si spinge verso qualcosa di impersonale, ecco che arriva una narrazione propria, univoca e inequivocabile, con nomi, collocazioni temporali e geografiche.

Siamo quindi sicuri di voler ancora sapere chi è Liberato?
Penso che la fine di tutto l’ascolto offra uno slancio riflessivo che può anche modificare il paradigma, lo stato delle cose. Per diversi anni c’è stata una curiosità morbosa verso chi animava il progetto, la smania di dare una faccia a qualcosa che probabilmente è più una risultante di creatività collettiva che individuale. Un approccio che non mi ha mai convinto: serve davvero dare tratti somatici, colore di occhi e capelli, fisicità a una canzone?
In forme musicali pop la presenza tangibile è sicuramente un tratto caratterizzante, ma sopravvive sempre quello che viene messo sul pentagramma e le parole scelte.
Da maschera che custodisce un segreto, a maschera performativa: Liberato porta sul palco qualcosa di personale, qualcosa di universale, probabilmente anche qualcosa di inventato. È una rappresentazione moderna, che coinvolge diversi media declinandosi in modi eterogenei. È un link alla commedia dell’arte, che per intrattenere entusiasma, però qualche volta assesta anche un pugno allo stomaco.
Non c’è solo qualche dato personale o riferimenti anagrafici da tenere nascosti, ma tutto rientra in un preciso modo di comunicare, di plasmare una forma d’arte attraverso la persona, nel significato classico del termine.
Mettici, inoltre, che porta bene al Napoli Calcio, e chi è meglio di lui?
In copertina uno scatto di Glauco Canalis